Mentre scivolavamo verso i numeri preoccupanti di una nuova ondata della pandemia, l’ultimo giorno di ottobre ho trovato il tempo per una rapida visita del museo archeologico di Sarsina, tenuto chiuso durante l’estate ma aperto la sera di Hallowen per consentire al personale di recuperare almeno in parte l’orario di lavoro disatteso nella chiusura estiva. All’ingresso le solite sparute figure dei custodi, che avrebbero più volentieri presidiato un camposanto, ci hanno tenuto a precisare subito che il museo era aperto solo parzialmente, perché “non mi arrabbiassi” scoprendolo da me. In effetti l’itinerario a senso unico attraverso alcune stanze del pianoterra senza potersi avvicinare al grande mausoleo di Rufus è più triste che deludente. Ho pensato a quello che era questo museo e all’inesorabile futuro che lo attende. Dopo tre quarti d’ora fra le iscrizioni civili e funerarie della Sarsina romana sono uscito nelle vie del centro animatissime di gente con l’aperitivo in mano, in anticipo sulla serata che non consentiva più festeggiamenti dopo le 18. Ho trovato aperta anche la porta del museo di arte sacra, con un signore attempato e ricurvo addetto all’apertura dall’aria sconsolata, che non trovava più parole di commento ai destini di questa collezione intima e suggestiva, superata dalle contingenze storiche, non tanto a causa della pandemia, ma per l’infodemia delle mostre alla moda.

Sono poi entrato nella basilica mentre stava per prendere avvio la messa prefestiva in medievale penombra, con il vangelo delle beatitudini ed un’omelia sulla vocazione alla santità. Uscito dalla porta laterale mi sono ritrovato di nuovo in piazza fra gli aperitivi chiassosi del sabato pomeriggio, ultimo strillo di un carnevale fuori stagione.