Perso nei meandri della scrittura di due articoli sull’industria autarchica del sorgo, durante l’estate mi sono concesso solo pochi ritagli di tempo per leggere i libri che avevo messo da parte. A ferragosto ho finalmente dato inizio a “L’illusione della volontà cosciente” di Daniel Wegner, l’ultimo degli acquisti di giugno. Dopo cento pagine di questo corposo saggio che si propone di “smontare” gli assunti filosofici della causalità del libero arbitrio, mi sono accorto d’essere stato catturato dal flusso narrativo di un autore che scopro solo ora, davvero affascinante per la “leggera inesorabilità” di conclusioni scientifiche fondate su esperimenti di neuro fisiologia e di psicologia della percezione. Mi colloco anch’io fra quelli che non temono la novità di questo approccio, e vivo con un senso di liberazione lo svelamento dei trucchi che dissolvono le gabbie filosofiche millenarie dell’intenzionalità, della causalità ingenua, della volontà primitiva. Essendo passato a Wegner dopo aver letto “Il prigioniero libero” di Giuseppe Trautteur, mi sembra di essere salito nell’attico di un grattacielo dopo aver girato nelle cantine labirintiche di un palazzo antico. La cultura filosofica dell’approccio scientifico colto del Novecento inciampa nelle evidenze sperimentali delle scoperte più recenti, su cui occorre fondare i meccanismi della coscienza. Il bel libro di Trautteur è un’opera d’arte che non porta a nulla, specchio delle aporie in cui spesso si dissolve come un fantasma il dibattito filosofico contemporaneo: utile a consolare l’anziano professore e ad ammiccare agli allievi spaesati della generazione successiva. Ha ragione Arnaldo Benini quando dice che bisognerebbe gettar via le biblioteche filosofiche del Novecento, mondi artificiali dove gli adepti si selezionano a vicenda su livelli astratti di complessità, perdendo di vista le sensate esperienze che connettono ai significati veri. Andremo avanti con Wegner.
All’inizio dell’estate mi ero proposto di leggere due classici della letteratura di spionaggio, un genere che avevo fino ad ora evitato perché mi sembrava dispersivo. Quale errore! Ho così dedicato i tramonti in spiaggia a John Le Carré (La spia che venne dal freddo) e a Graham Greene (Il nostro agente all’Avana): due libri diversissimi per stile e situazione, accomunati dai tratti grotteschi della macchina dello spionaggio, che appare dotata di vita propria, tanto da far sembrare preterintenzionali i movimenti dei suoi uomini. Monumentale Le Carré: mi domando come riesca a lavorare su una struttura narrativa tanto complessa senza perdere un colpo, di ribaltamento in ribaltamento senza riposare mai sulla certezza di una posizione univoca, fino alla scena finale che libera l’umanità del protagonista (del quale resta comunque vago il livello di consapevolezza fino a poche pagine dalla fine). Bella l’ambientazione nei paesaggi della Germania divisa fra est e ovest: la topografia dei quartieri, le strade chiamate per nome sullo sfondo del muro appena eretto. La macchina dello spionaggio appare assolutamente autoreferenziale, costruita per neutralizzare se stessa attraverso i “nemici”. Questo è Le Carré, mentre Graham Greene ha uno stile scanzonato e provocatorio: “Il nostro agente all’Avana” seduce per le ambientazioni tropicali e fa sorridere per i gesti deliberatamente preterintenzionali del protagonista, ma prima di parlarne occorre che finisca di leggerlo.
Per il compleanno qualche giorno fa ho ricevuto da Giorgia in regalo “Lo Stradone” di Francesco Pecoraro, su segnalazione di Tommaso C: sguardo feroce contro l’orrore della Roma contemporanea, scritto col linguaggio ipnotico di un narratore che avevo imparato ad apprezzare una dozzina di anni fa come blogger Tashtego.
Segnalo infine l’acquisto del bel volume di Mario Luni del 2003 (Archeologia delle Marche) a venti euro in un nuovo negozio di libri usati di Cesena. Non avendo più intrapreso escursioni turistiche nelle Marche, mi sono concesso almeno il “lusso” di un ripasso scritto ed illustrato, nel miglior stile dell’editoria bancaria di fine Novecento.