La scuola è ripresa da due giorni col viatico di un nuovo decreto anticovid che sembra il libretto di istruzioni del Risiko. Isolato nell’appartamento di Pinarella per il timor di contagio, in questo primo week end del 2022 ho finito di leggere due libri che mi impegnavano a singhiozzo dall’estate scorsa. Adesso posso cominciare qualcosa di nuovo e vorrei orientarmi verso un classico di spessore, per alimentare il tempo della lettura con un nutrimento adeguato alle circostanze. Del primo libro di cui intendo parlare ho già avuto modo di raccontare con toni entusiastici: L’illusione della volontà cosciente di Daniel Wegner, un libro di psicologia del 2002 tradotto in italiano nel 2020, che conferma fino all’ultima pagina l’agilità di un pensiero che si muove con disinvoltura in ambiti di frontiera, con il supporto dei risultati di oltre un secolo di psicologia sperimentale, dando ampia dimostrazioni del principio di causalità apparente. Il senso di volontà che precede e sembra causare le azioni umane sarebbe uno stratagemma dell’evoluzione, messo a punto per gratificare il soggetto e dargli l’illusione di essere l’autentico protagonista di ciò che gli accade. Questo saggio riesce ad essere al tempo stesso specialistico e divulgativo, senza reticenze né adattamenti per il vasto pubblico, ovunque scritto in modo esemplare, forse un po’ più lungo del necessario (la lunga disamina degli esperimenti sull’ipnosi trova giustificazione nel contesto scientifico e meno in quello divulgativo). Per conoscerne i dettagli rimando a questa bella recensione di Susanna Arcieri.
L’altro libro pubblicato come romanzo nel 2019 è Lo stradone di Francesco Pecoraro, che comincia con uno stile accattivante, provocatorio, con uno sguardo antropologicamente spietato sulla contemporaneità e sulla storia del Novecento, ma non finisce, anzi sfinisce il lettore rimescolando senza scopo i diversi piani narrativi che si diverte ad intrecciare. Ho impiegato mesi per arrivare all’ultima pagine e giungendo fino in fondo mi è comunque sembrato di averlo lasciato a metà: non sarebbe cambiato nulla alla comprensione dell’insieme se ne avessi letto solo metà. Perché allora gli editori devono pubblicare tutto tutto, come se la mancanza di struttura fosse parte dell’espressione letteraria? Mistero dell’editoria contemporanea, che ha il coraggio di assegnare il nome di romanzo ad un’opera del genere. Lo Stradone di Pecoraro non è un romanzo ma un blog che sarebbe stato meglio leggere in rete senza sprecare carta stampata.
In questo mese di gennaio ho anche trovato il tempo per finire di leggere il “Pietro da Rimini” di Alessandro Volpe, viaggio a dire il vero un po’ nevrotico nella pittura riminese del trecento, scritto dal figlio di Carlo Volpe, che fu un grande interprete della critica d’arte del Novecento. Di tanto discutibile parlare, salvo solo la ricostruzione della storia attributiva, che ricompone la fortuna critica della pittura riminese trecentesca e ne definisce le oscillazioni intorno al valore dell’autorialità. Il rimpianto di un approccio poetico allo studio di queste opere d’arte non cambia il loro destino e crea confusione. I dati documentari dovrebbero trovare posto in prima pagina, non alla fine del terzo capitolo. Lasciarsi ipnotizzare da un’opera d’arte non serve a produrre nuove conoscenze. Descriverla con belle parole è un operazione da rivista letteraria, di indubbio valore se ben fatta, che purtroppo non aggiunge nulla alla conoscenza dei fatti. In mancanza di nuovi documenti basterebbe un lavoro di pulizia che togliesse dai discorsi le parole inutili. Insomma bisognerebbe parlare d’altro.